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DAL DIARIO DI LEONE TOLSTOI
1882
1882.
Dicembre 22 Di nuovo a Mosca. Di nuovo ho provato orribili
tormenti spirituali. Più di un mese. Ma non infruttuoso.
Se ami
Dio, il bene (sembra che comincio a amarlo), ami, cioè vivi di
questo, vedi in esso la vita e la felicità; ma vedi anche che il
corpo impedisce il vero bene, perché te lo fa vedere, ti fa
vedere i suoi frutti. Se cominci a guardare i frutti del bene,
smetti di farlo, e non è tutto: col guardarlo, lo guasti, te ne
vanti, intristisci. Solo allora sarà vero bene quel che tu fai,
quando tu non ci sarai per guastarlo. Ma preparalo di più.
Semina, semina, sapendo che non tu, uomo, mieterai. Uno semina,
l'altro miete. Tu, uomo, Lev Nikolaeviè, non mieterai. Se ti
metti solo a mietere, o anche solo a sarchiare, rovinerai il
frumento. Semina, semina. E se semini il divino, non possono
esservi dubbi che crescerà. Il fatto, che prima mi sembrava
crudele, che non mi è dato di vedere i frutti, ora è chiaro che
non solo non è crudele, ma è buono e razionale. Come potrei
distinguere il vero bene, il divino, dal non vero, se io, uomo
carnale, potessi trar profitto dai suoi frutti?
Ora è
chiaro; quel che fai senza vedere ricompensa, e fai con l'amore,
quello è sicuramente divino. Semina e semina, e Dio farà
crescere, e mieterai non tu, uomo, ma quello che semina in te.
1883
1883.
1 gennaio. Mosca Appena mi sveglio mi vengono spesso pensieri,
chiarimenti di ciò che prima era confuso, e ho gioia: sento che
progredisce.
Così
in questi giorni: la proprietà. Non riuscivo a aver chiaro che
cos'è. La proprietà così com'è ora è male. Ma la proprietà in se
stessa è gioia per quel che ne ho fatto, il bene. E mi è
diventato chiaro. Non c'era cucchiaio, c'era un pezzo di legno:
ho inventato, ho lavorato e ho intagliato un cucchiaio. Che
dubbio può esservi che esso è mio? Come il nido di quest'uccello
è il suo nido. Lui vuole usarlo come vuole. Ma la proprietà
protetta dalla violenza, dal poliziotto con la pistola: questo è
il male. Fatti il cucchiaio e mangia con esso, ma fino a quando
non è utile a un altro. Questo è chiaro. Il punto difficile è
questo, che io faccio una stampella per il mio zoppo, e un
ubriaco prende la stampella per sfondare con essa una porta.
Chiedere all'ubriaco di lasciare la stampella. Unica cosa. Più
gente ci sarà che chiede, più sicuro sarà che la stampella resti
a chi ne ha più bisogno.
***
Dalla Gazzetta di
settembre 1983
Articolo: Morra un paese
dimenticato
Volume 1 : 30 ANNI DI
CRONACHE DA MORRA DE SANCTIS E DEI MORRESI EMIGRATI
pagg. 34-35
[…]Morra Attende. I
morresi vorrebbero veder iniziati i lavori che porterebbero un
barlume di speranza nel buio della rassegnazione. Si potrebbe
incominciare a costruire le casette per anziani, usufruendo così
anche dei 250000 franchi promessi all’AME dalla Catena della
Solidarietà Svizzera, se i soldi avanzano, si potrebbe
continuare con l'Edificio Polifunzionale. Morra non ha bisogno
di cattedrali disegnate sulla carta, ma di alloggi e il tempo
stringe. Quanti anni ancora nasceranno i figli nelle macerie
senza vedere all'orizzonte un raggio di roseo avvenire?
Accorciamo i tempi, cerchiamo veramente di aiutare non di
beffare quelli che furono colpiti dalla sventura.[…]
Questa volta voglio farvi leggere un brano che è estratto dal
libro di Gilbert Chesterton
“Il napoleone di Notting Hill” www.Libero.it
Il libro è scherzoso, immaginario e non tutti possono capire
quello che Chesterton nasconde sotto i suoi scherzi fantasie. Io
credo, però, che nella sua apparente alienazione mentale, si
nascondano dei concetti filosofici e politici che si potrebbero
rapportare anche ai tempi di oggi. Specialmente quelli politici.
In ogni caso se vi fa piacere leggete questa paginetta che ho
estratto da libro. Questo è anche un modo di scoprire l’autore
della serie di Pater Brown.
[…] — La nostra condizione è paradossale, — disse. — In un certo
senso, siamo la più pura democrazia: siamo diventati un
dispotismo. Non avete osservato come regolarmente, nella storia,
la democrazia sia diventata dispotismo? Si parla allora di
decadenza della democrazia, mentre si tratta del suo compimento.
Perché prendersi la briga di dare a tutti gl'innumerevoli John
Robinson
il diritto di voto e la scheda elettorale, quando sarebbe
semplicissimo prendere il primo venuto dei John Robinson1
che sarà intelligente o poco intelligente come gli altri? perché
non limitarsi a questo? I vecchi repubblicani idealisti
fondavano la democrazia sul concetto che tutti gli uomini
fossero egualmente intelligenti; ma, credete a me, la sana e
durevole democrazia è fondata sul fatto che tutti gli uomini
sono egualmente idioti. perché scegliere questo o quello? Chi
occorre a capo d'un governo? Un uomo che non sia né pazzo né
delinquente, che sia capace di dare un rapido sguardo a qualche
petizione e di firmare in fondo a qualche proclama. Quanto tempo
perduto in discussioni intorno alla camera dei Lords!
I Tories
dicevano che bisognava conservare questa assemblea, perché era
intelligente; i Radicali dicevano che bisognava sopprimerla
perché era stupida; e nessuno vedeva che, appunto perché era
stupida, ci voleva, e che quella folla d'uomini comunissimi
riunitivi a caso, per sorte di nascita, era una gran protesta
democratica contro la Camera Bassa e l'eterna insolenza
dell'aristocrazia degl'ingegni. Noi abbiamo stabilito ora in
Inghilterra il regime al quale tendevano oscuramente i sistemi
precedenti; il triste dispotismo popolare e senza illusioni. Ci
occorre un uomo a capo del nostro Stato, e non già perché egli
abbia talento e virtù, ma per il solo fatto che è un uomo e non
già una folla di cialtroni. Per evitar l'avventura sempre
possibile, di qualche malattia ereditaria o altra del genere,
abbiamo rinunciato alla monarchia ereditaria. Il Re
d'Inghilterra è scelto come un giurato, fra quelli iscritti in
apposita lista. A parte ciò, il nostro sistema è tranquillamente
dispotico, e non s'è visto che abbia causato sinora la minima
protesta. — Come sarebbe? — esclamò il Presidente incredulo —
scegliete il primo venuto, fra i primi venuti che vi capitano, e
ne fate un despota? V'affidate, a caso, ad un elenco alfabetico?
— E perché no? — esclamò Barker, — non abbiamo visto metà almeno
delle nazioni storiche affidarsi ai figli anziani dei figli
anziani, e metà almeno di queste nazioni trovarcisi bene? Poiché
è impossibile avere un sistema perfetto, è indispensabile almeno
averne uno qualunque. Con la monarchia ereditaria, era questione
di fortuna; lo stesso accade delle monarchie alfabetiche. Potete
forse trovarmi una ragione filosofica profonda che valga a
spiegare la differenza che esiste fra gli Stuart e gli Hannover?
In tal caso, credetemi pure, io troverei a mia volta un profondo
motivo filosofico nel contrasto fra la cupa tragedia dei nomi
che cominciano per A, e la solidità, il buon successo di quelli
che cominciano per B. — Ed ecco, appunto, il rischio cui andate
incontro — esclamò l'altro — senza dire che la persona designata
potrà essere un tiranno, un cinico, un delinquente.
— Affrontiamo tale rischio — rispose Barker, con perfetta calma.
— Supponiamo che sia un tiranno: egli impedirà tuttavia le
tirannie d'un centinaio di altri tiranni. Immaginiamolo cinico:
è suo interesse governar bene. Immaginiamolo delinquente:
sottraendolo alla povertà e affidandogli un potere, noi lo
induciamo a rinunciare ai suoi crimini. Insomma, accettando il
suo dispotismo, noi abbiamo un delinquente di meno, che impedirà
a tutti gli altri di commettere dei delitti. Il vecchio
nicaraguense si rovesciò sulla sua sedia con un'espressione
strana negli occhi.
— Signore — diss'egli — la Chiesa alla quale io appartengo mi ha
insegnato il rispetto della fede; e non vorrei mancar di
rispetto alla vostra, per quanto fantastica possa sembrarmi. Ma
potete sul serio affermare che avreste fiducia in un uomo
qualunque, nel primo venuto, e che lo credereste capace di
essere un buon tiranno?
— Lo credo — rispose Barker con semplicità. — Forse non sarà un
uomo onesto, ma un buon tiranno, sì; giacché immesso nel corso
ordinario delle faccende di stato, farà l'impossibile per essere
giusto nel senso comune della parola. Non ci aspettiamo forse la
stessa cosa da un giurì?
Il vecchio Presidente sorrise.
— Non ho — rispose, — alcuna obiezione particolare contro il
vostro metodo di governo; ma soltanto un'obiezione puramente
personale. Se mi si chiedesse di assoggettarmi a tale metodo,
vorrei prima di tutto sapere se mi si permetterebbe, invece,
d'essere un rospo in un fosso. Ecco. E invano voi argomentereste
contro una scelta dettata dall'anima. […]
John Robinson è come dire: uno
qualunque. John è il nome più comune tra gli inglesi, e
Robinson il più comune dei cognomi
A proposito
di Zurigo, la signora Marietta racconta questo aneddoto che
rivela l’uomo.
« A Torino,
nel 1864, feci conoscenza del ministro svizzero il quale
dicevami : - — Signora, suo, marito è ancora così poco amante
del danaro ? Sappiate che, quando a Zurigo, tutti i professori
ebbero un aumento di stipendio, solo il De Sanctis non volle
chiederlo. E alla mia domanda: Perché non fate come gli altri
tutti ? rispose — Ciò che mi dà il governo Svizzero supera i
miei bisogni, e ringrazio. — Era prima volta che avevo una tale
risposta.... »
FRAMMENTO
BIOGRAFICO
di
Enrico
Amante
Francesco De Sanctis
di Enrico Amante
...
ingegno versatile e capace in poco di tempo di approfondir
tutto;
onde io dicea a me stesso di Lui: «Mi
par Lucullo, che per viaggio impara la guerra e
vince Mitridate».
Una casa più ampia,
più arieggiata fu quella a San Potito, ove fummo
col De Sanctis più anni. Stando colà
facevamo il nostro frugale pranzo:
indi un po’ di conversazione talora
anche prolungata, finché ogni di De Sanctis rompendo mi
diceva : «Or lascia che io mi raccolga
un poco per la lezione da fare»
e si portava per qualche 3/4 d’ora o poco più nella sala
senza nulla
scrivere, solo meditando, e ne uscivano quelle stupende
lezioni, ch’egli dettava in una
gran sala al Collegio de’ Nobili a numerosa ed eletta
gioventù e che continuate per più anni
costituirono Lui uno de’ più potenti
ingegni di Napoli.
In quella casa fui per
perder io la vita. Era piovuto tutta notte ed il di
seguente Francesco celiando mi ebbe
detto di salire su un piccolo sopraverone: io ci salii,
ma arrivar lì e piombare di peso a
terra con le braccia penzoloni da fuori ad altezza enorme fu un
punto solo: accorse Francesco a
ritenermi e fui salvo e
ne ridemmo assieme. Ci era della pece sulle screpolature de’
lastrici, onde con la pioggia tosto si sdrucciolava.
Era Vito con noi,
fratello di Francesco, che andava a scuola. Li
ci
vennero a trovare mio padre e la mia bellissima e
virtuosa e sventurata sorella
Clarice, piccoletta allora c mesta
martire della sua virtù, del suo ingegno e
de’ tempi gravi, che
correvano.
Nel 1841 o in quel
torno F De Sanctis fu con me a Fondi in mia casa e
cosi vi conobbe tutta la mia famiglia,
non escluso il mio avo Vincenzo
Amante, che mori nel
1844.
Spesso veniva a Napoli
il padre del professore e con lui eravamo in intimità:
passeggiavamo sempre assieme, gaio uomo ch’egli era e che
parlava
con culto del figlio, senza aver potuto vederlo al punto, nel
quale giunse in questi ultimi
anni. Ci furono due morti, che funestarono Francesco, della
Genovefa sorella e della madre; e di
questa parlò in iscuola a’ giovani in
modo eloquentissimo e tutti ne
piansero. Facevamo sempre il nostro pasto
frugalissimo, ma allegro assieme.
Talora ci mancava il danaro per mangiare.
Uno di que’ brutti giorni Francesco se
ne tornò tutto allegro e mi disse:
«Sai, ecco 6 carlini: ho visto
Giovanni (De Sanctis); e costui al vedermi mi
ha detto: eccoti i sei
carlini, prezzo delle copie vendute de’ tuoi libri».
Con Giovanni ci erano
stati e ci erano allora mali umori passaggeri; e
Giovanni quasi per orgoglio dar volle
quella moneta, che fu salutare per
quel giorno.
In quegli anni io
presi insegnare; e dopo a Calata S. Severo presi a
dettare dritto ed a chiarire il Vico,
mentre fiorentissima era la scuola di
F De Sanctis. Uscii magistrato nel
1844 e De Sanctis restò a Napoli a fare
le sue lezioni applaudito da tutto il
paese. Ed ecco avvicinarsi e giugnere
il fatidico 1846 ecc.
di zio Peppe, la Rivoluzione.
Venuto io a Napoli e
smessa la toga posi sul petto la croce del volontario: De
Sanctis mi diede un sottufiziale,
che m’istruì nel maneggio militare; ed
il 13 Aprile 1848, entrato nel Battaglione de’ Volontari retto
da Roussaroll, prendemmo
imbarco sull’Archimede,
vascello napoletano, assieme a un battaglione di Cacciatori
Napoletani. Sul porto ci era Ferdinando II col berretto italiano
a far le mostre di darci il commiato, ma meglio per
festeggiarci. Ci diceva: «Portateci molti orecchi di Tedeschi,
sa»; ed i nostri a rispondere:
«Ve ne porteremo i sacchi pieni»; e caduta una
gran pioggia, tutti a
gridare i volontari: «Viva la pioggia italiana » a mostrare a Re
Ferdinando che di nulla essi curavano. Il festeggiato per allora
restò Ferdinando II.
Mi accompagnavano
nell’imbarcarmi Camillo De Meis e Luigi La Vista!!!
Luigi La Vista,
stringendomi l’ultima volta la mano, proruppe in lagrime. Io gli
dissi: «Perché non vieni con noi? » Ed egli: «No: abbiamo
a far altro qui». Ed il mio cuore si
oscurò: sapea che voleano fare uno
sforzo di liberarsi di Re Ferdinando
II; ma io volea arrivarvi per altra via
più sicura : andare in molte e molte
migliaia in Lombardia, li agguerrirsi,
e disciplinati in reggimenti tornare
nel Regno ed abbattervi i Borboni. Invece
ci fu la sanguinosa, gloriosa, ma infelice giornata del 15
Maggio, che vinta dal Borbone
gli recò tra mani il Paese e rovinò le sorti della guerra
italiana.
In quella fatale
giornata F De Sanctis, a capo de’ suoi giovani, fu a far
fuoco sopra gli Svizzeri e vide cadere
tra altri sfracellato uno de’ suoi discepoli, e si ebbe dolorosa
impressione, e dopo seppe del La Vista preso dagli
Svizzeri e fucilato al Largo della
Carità. De Sanctis fu fatto prigioniero dagli Svizzeri;
incontrato dal Colonnello... ch’era stato il Comandante della
Nunziatella
questo signore disse a De Sanctis maravigliarsi che un
professore della Nunziatella fosse tra i combattenti!
Il voleano passar per
le armi, e dopo fu condotto in fondo di un
vascello.
Reduce io a Napoli e
quivi trionfatrice la reazione, tolta sino in un bel
giorno, di mezzo a pattuglie che
correvano la città, la bandiera tricolore,
De Sanctis volle andarne in Calabria
presso uno di que’ signori e suo antico
discepolo. Io lo accompagnai sul legno
di mare, ove trovammo Gaetano
Filangieri, che si atteggiava a mezzo liberale, figlio del
Generale che avea colle armi
sottomessa la Sicilia e che conosceva De Sanctis, poiché il
Generale talora alla Nunziatella avea fatto de’ discorsi
bellicosi, ed io assistei ad
uno di tali discorsi, e conosceva benissimo De Sanctis, ed era
amico del Puoti. Si atteggiava
ad un certo contegno liberalesco, in que’ tempi e
presso i giovani del Collegio, il
Filangieri Generale; ma gli avvenimenti
smentirono l’uomo. De Sanctis ebbe tra
colleghi professori nel Collegio della
Nunziatella Pietro Ulloa, quello
stesso che fu poi Procuratore Generale e
Ministro di Francesco II a Gaeta ed a
Roma, e monsignor Sauchelli, un
furbone prete, che di
tutto s’incaricava fuorché di Cristo: prete sensuale.
Mentre De Sanctis era
in Calabria, ove era stato mi pare altra volta
presso Vercillo od altri, io veniva a
Fondi processato ed involto nell’istruttoria cosi detta dell’«
Unità italiana », per la quale vennero in Napoli giudicati
Spaventa, Poerio, Pironti ed altri.
Governa, Procuratore Generale a S. Maria,
requisì per me 30 anni di lavori
forzati. Fuggii a Napoli da’ furori del generale Lanza, del
Governa e del giudice Freda, e vi vissi latitante e sotto
altri nomi
diversi anni.
Andando un giorno con
mia moglie, allora sposa, a Caserta presso mia
sorella Elvira Amante nel gennaio 1853
o in quel torno, vi venni arrestato da
Campagna e tratto al Castello
dell’Ovo; chiuso in quelle segrete sotto la
rubrica di associazione detta «de’
Pugnalatori ». De Sanctis era
stato qualche mese prima pur arrestato in Calabria colla
imputazione di cospirazione
contro la persona di Re Ferdinando II e messo nelle segrete del
Castello dell’Ovo; egli vi
restò circa tre anni; ed io il lasciai lì, portato per la causa
da fare nel
Carcere della Vicaria.
Nel Castello dell’Ovo
non fu dato mai vederci con Francesco De Sanctis: i soldati, che
lì erano, mi ingannavano, dicendo di avergli pórti i miei
saluti: erano tutte menzogne. De
Sanctis nelle segrete del Castello dell’Ovo
seguitò a studiare impassibilmente il
tedesco ed a farselo pur famigliare
parlando; poiché, come seppi,
conversava lì con qualche militare svizzero.
Tratto davanti alla Giunta di Stato,
vi mostrò quella sua invincibile stoica
impassibilità, che rese
inutili tutti gli sforzi della polizia napoletana.
La nostra causa non si
fece: finì coll’esilio de’ creduti principali colpevoli e gli
altri ne andarono fuori sotto mandato.
Natomi alcun tempo
dopo tali vicende un figlio, che chiamai Bruto a
dispetto de’ Borboni, il volli far
tener a battesimo da F De Sanctis, tuttora
nel Castello dell’Ovo, e per procura
in testa del di lui germano Paolino, prete
De Sanctis. Indi F.
De Sanctis anche egli non giudicato
fu cacciato in esilio;
e fu mi pare in Berna
a farvi altre stupende lezioni. Avea lì
una gioventù di triplice
nazionalità, italiana, francese, tedesca; ed egli dopo mi ebbe
detto che agl’italiani bastava
pur un gesto per farsi subito intendere, svegliatissimi
che sono; pe’ Francesi era il caso di
parlare una volta e bastava; pe’ Tedeschi
necessità di ripetere le medesime
cose, e domandavano e ritornavano dal
professore per meglio
intendere.
Passarono più
anni, noi involti nelle persecuzioni de’ Borboni, De Sanctis in
esilio a Berna.
Ci rivedemmo nel 1860,
con la Costituzione e con Garibaldi. Dilicato
assai nel passato, l’ebbi a rivedere
forte e rinvigorito: cosi vidi De Meis e
tutti gli altri emigrati, che mi
chiamavano il « giudice caporale », e diceanmi
che cosi l’emigrazione mi appellava
per avere, giudice ch’era, deposto la
toga e corso a combattere per la
indipendenza d’Italia, e per non aver voluto
accettare gradi, tranne
solo quello di caporale.
De Meis poi mi
chiamava « il Conte di Cavour », dalla somiglianza che
egli dicea che
avea nel viso con Cavour, che io non conobbi mai personalmente.
In Napoli nel 1860
fummo col De Sanctis ad una funzione funebre pe’
caduti ne’ campi dell’indipendenza; e
De Sanctis non guardava in faccia
coloro, che aveano nell’emigrazione
sostenuta la restaurazione dei Murat;
ed in questo divisi, io nel Regno,
egli in esilio, ci trovammo pure concordi :
piuttosto sottostare a’ Borboni, che
favorire i Murat, poiché dicevamo: «I
Borboni li cacceremo; i Murat,
sostenuti da Francia, resteranno, ed allora
giù l’unità italiana ».
De Sanctis nell’emigrazione avea colla stampa stigmatizzati i
neo-murattisti.
Instaurata a Napoli la
Dittatura, De Sanctis fu nominato Governatore
della Provincia di Avellino, ed andò.
Or viene una pagina storica per De
Sanctis. Durante la sua assenza ad
Avellino, si agitò in Napoli la quistione
del Plebiscito: un partito
potentissimo l’avversava, mettendo a repentaglio
l’unità d’Italia, che non potea sorger che da Napoli. Furono momenti
supremi per la Patria. Mazzini era in Napoli e con la idea
repubblicana agitava, onde il Plebiscito non fosse per la
Monarchia. De Sanctis era stato
nominato in quel punto Direttore della Pubblica Istruzione. Ed
in lui tutti speravamo noi a
vincere le poderose influenze, che si agitavano contro
l’annessione ed il Plebiscito. Conforti, uno de’ Ministri
(sempre fiacco), tentennava: solo speranza per noi De Sanctis:
ma a De Sanctis maliziosamente
neppur si dava ressa per farlo tornare. Facemmo due cose: ci
adoperammo perché Egli venisse
a Napoli ed assumesse il novello grado; di più Barci,
Marvasi, Villari ed altri devoti alla
patria e a De Sanctis vollero che chi
scrive, Errico Amante, qual vecchio
amico di De Sanctis, appena costui arrivato gli fosse a’
fianchi, gli facesse conoscere le male arti rovinose per la
grande patria italiana e lo spingesse
a far subito nel Consiglio de’
Ministri deliberare il
Plebiscito. De Sanctis, nuovo arrivato, dapprima credé
esagerati i timori di E.
Amante, né possibile che Mazzini fosse a Napoli, né che agitasse
in senso opposto; ma col suo buon senso e sagacia non istette
gran fatto ad intender la fatal
posizione fatta al Paese e chiaritagli dallo scrivente.
Allora De
Sanctis al Largo della Carità invitò in una casa colà il
Conforti.
Dopo lunghe conferenze
furono concordi di proporre e far accettare da
Garibaldi il Plebiscito. Garibaldi
fini per cedere e firmò il decreto pel Plebiscito; e l’Italia fu
fatta : Ricasoli la iniziò a Firenze e De Sanctis la compì
a Napoli. Senza la nostra buona
volontà a far tornare De Sanctis ed a chiarirgli i pericoli, e
senza il deliberato proposito di De Sanctis, l’Italia naufragava
a Napoli. Ora morto il povero Marvasi: vive Barci.
Terminata la campagna,
i generali di Garibaldi voleano un appannaggio
o fecero intravedere che il volessero.
I ministri di Garibaldi sempre fiacchi
avrebbero piegato: aveano conquistato
un regno... De Sanctis si oppose in
Consiglio di Ministri, dichiarando che
a tal modo era perduto l’ideale della
gloriosa campagna di Garibaldi. Vinse
De Sanctis: e questo a chi scrive fu
detto allora da De
Sanctis stesso.
Infine, venuto Re
Vitt.io Emanuele e consegnato il governo di Napoli a
Luigi Farini, costui fece dire a De
Sanctis che scegliesse quel grado che
avesse voluto occupare nello Stato. De
Sanctis rispose che non volea nulla,
e si ritirò.
ENRICO AMANTE
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Letture e composizioni |
Facevo
la mia lezione di grammatica alla buona,
seduto, senza gesti e senza intonazione oratoria, in modo
familiare e didascalico. Il corso durò due buoni anni. Finita la
lezione, facevo un po’ di lettura. Caldo ancora di fantasmi
grammaticali, cercavo gli esempli e le applicazioni nel libro,
ricorrendo spesso alla lavagna, perché mi piaceva di parlare ai
sensi, e non ristavo finché la cosa non era chiara a tutti.
Avevo molta attitudine alle minuzie; sminuzzavo tutto, e su
ciascuna minuzia esercitavo il mio cervello sottile. Quelli che
mi sentivano filosofare in grammatica, e tracciare le cose a
grandi tratti, non si persuadevano come foss’io quel medesimo
cosi minuto nelle minime particolarità grammaticali. La stessa
minuteria era nelle cose della lingua. Dopo di avere analizzato
e rovistato in tutti i sensi il fatto grammaticale, mi divertivo
con le parole, e con la mia infinita erudizione, attinta ai
testi di lingua, di ciascuna parola dicevo i derivati e i
composti, i sensi antichi e nuovi, le simiglianze e le
differenze, tanto che mi chiamavano « il dizionario vivente ».
Talora la lettura non era che di un periodo solo, e prendeva una
buona ora, e non la finivo più, e mi ci scaldavo io, e ci si
scaldavano gli altri. E quando, riscossomi e cavato l’oriolo,
vedevo l’ora e facevo la faccia attonita, quei cari giovani mi
sorridevano dicendo: « Professore, quando vi ci mettete!... » Il
fatto è che in quella scuola non si sentiva la noia, perché
dicevo cose novissime con un calore, con una unzione che li
teneva tutti a me, vivendo tutti la stessa vita.
In quell’anno lessi dei brani del Pandolfini,
del Compagni e di Frate Guido da Pisa, e terminai con la famosa
leggenda del carbonaio di Iacopo Passavanti1.
Nella prima lettura non andai più in là del primo periodo del
Governo della famiglia,
e ci feci sopra le più nuove e le più sottili avvertenze,
indicando le differenze di tutti quei sostantivi ammassati l’uno
su l’altro, che esprimevano delicate gradazioni di una stessa
cosa, e parevano simili ed erano diversi, e spiegavo anche il
perché del loro collocamento. Spesso tiravo fuori il capo da
queste nebbie di minute osservazioni, e mi trovavo in puro
cielo, nel cielo luminoso dell’arte, e m’entusiasmavo io, e
tutti si entusiasmavano, mutando io voce e colore e accento. Mi
rimane ancora oggi l’impressione viva che fece la lettura del
convito del Pandolfini. Quando lessi: « spento il fumo alla
cucina, è spento ogni grado di grazia », e quando, con
intonazione solenne, uscii in quel « solitudine e deserto »,
quella vivace gioventù non si poté contenere, e proruppe in
applausi, affollandomisi intorno. Quella descrizione magnifica
degli apparecchi del convito, dove tutto è pieno di senso, ch’io
annotava e scolpiva, si trasformava nella mia calda analisi in
una scena drammatica. Un’impressione più durevole forse fece la
descrizione graziosa di una festa, nella quale il nostro messer
Agnolo Pandolfini colse la moglie che s’era imbellettata. Fece
ridere quella « faccia imbrattata a qualche padella in cucina »,
e tutti colsero il garbo e la bonomia che è verso la fine,
quando il marito, vedendola piangere, dice: « Io lasciai che
s’asciugasse le lagrime e il liscio ». Pure, questo benedetto
libro non l’ho aperto più dopo quel tempo, sono passati tanti
anni e tante vicende, e queste frasi mi tornano alla memoria, e
mi tornano quelle letture come se le facessi ora, sì forte fu
l’impressione.
Una volta la settimana si faceva il lavoro. Di
rado davo un tema; il più delle volte se lo sceglievano loro. Io
tornava a casa carico come un ciuco. Il dì appresso mi levavo di
buon mattino, e cominciavo la lettura di tutti quei
componimenti. Avevo fatto l’occhio ai diversi caratteri, tanto
che anche oggi dalle scritture più orribili me la soglio cavare.
Mettevo in quel lavoro un’infinita pazienza, perché infinita era
la coscienza: mi sarebbe parso un delitto l’andare in fretta o
leggere a salti. Mettevo nel margine le correzioni con le debite
osservazioni, e talora tiravo in lungo, perché volevo farmi ben
capire. Fatta quella fatica, tornavo da capo a legger tutto,
spesso aggiungendo altre postille; poi sceglievo in quella selva
di errori quelli che davano occasione ad avvertenze grammaticali
o di lingua, e che era bene che tutti sentissero. Questa era la
mia occupazione di tutto il di. Nel dimani andavo cosi armato a
scuola, e chiamavo i giovani, uno per uno, e sempre trovavo a
dir loro qualcosa, o biasimo o compatimento o lode, consegnando
le carte. Poi prendevo i miei appunti, e con l’occhio alla
lavagna facevo scrivere le frasi o i periodi da me scelti,
dov’erano gli errori, e volevo che i giovani me li trovassero.
Di là cavavo materia molto istruttiva di osservazioni e di
applicazioni nelle cose della lingua e della grammatica. Quello
era l’esercizio più utile. Posso dire che s’imparava più a quel
modo che con tante regole e con tanto filosofare. Io non
lasciava mai in ozio l’intelletto e non dava luogo alle
distrazioni: sempre lì, l’occhio alla lavagna, attento, caldo,
come se vivessi là entro, e quella serietà, quel calore
guadagnava tutti, li tirava a me.
Dalla “Giovinezza” di Francesco De Sanctis, pagg. 111-113,
a cura di G. Savarese, Guida Editori
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"Mi sono fatto delle idee, ma non ho avuto il polso di difenderne
nessuna, perché so ho cambiato idea.
Chesteron da "UOMO VIVO"
Dalla Gerusalemme Liberata di Torquato
Tasso:
"Signor, non sotto l'ombra in piaggia molle
Tra fonti e fior, tra Ninfe e tra Sirene
Ma in cima all'erto e faticoso colle
Della virtù riposto è il nostro bene.
Chi non gela, e non suda, e non s'estolle
Dalle vie del piacer, là non perviene".
***
DAL LIBRO DI ALEXANDRE
DUMAS: “CONSCIENCE”
À mesure qu’on avance dans la vie, et qu’on s’éloigne, en réalité, du
berceau pour se rapprocher de la tombe, il semble que ces fils
invisibles qui rattachent l’homme aux lieux de sa naissance se fassent
plus forts et plus invincibles.
C’est que le cœur, l’esprit, l’intelligence, tout l’être enfin, réagit
contre ce spectre qu’on appelle le temps, qui nous pousse sans cesse en
avant d’une main plus forte et d’une impulsion plus sensible, comme si
notre vie suivait une pente, et que, selon les lois de la pesanteur,
elle roulât plus rapide vers la fin que vers le commencement ; alors on
se retourne éploré; on crie, on se cramponne à tout ce que l’on
rencontre sur la route ; puis, comme tout ce que l’on rencontre suit la
même pente, entraîné par le même tourbillon, l’on sent que toute
résistance est inutile et désespérée ; l’on tend les bras vers les
objets lointains qui brillent à l’horizon matinal comme aux dernières
flammes du couchant, blanchissent parfois, à l’horizon opposé, les
murailles d’une humble petite maison, ou enflamment les vitres d’un
orgueilleux et splendide château.
La vie de l’homme
se sépare en deux phases bien distinctes : les trente-cinq premières
années sont pour l’espérance ; les autres sont pour le souvenir.
***
TRADUZIONE :
[…] “Man mano che avanziamo nella vita
e che ci allontaniamo in realtà dal principio per avvicinarci alla
tomba, sembra che questi fili invisibili che collegano l'uomo ai luoghi
della sua nascita, si facciano più forti e invincibili.
È che il cuore, la mente,
l'intelletto, l'intero essere, infine, reagisce contro questo spettro
che noi chiamiamo tempo, che ci spinge sempre in avanti con una mano più
forte e un impulso più sensibile, come se la nostra vita fosse su un
pendio, e che, secondo le leggi di gravità, rotola più veloce verso la
fine che verso l'inizio; poi ci si volta in lacrime; si grida, ci si
aggrappa a tutto ciò che si incontra per strada, e poiché tutto ciò che
incontriamo segue la stessa pendenza, guidati dallo stesso vortice, si
può sentire che la resistenza è inutile e senza speranza; si allunga le
braccia verso i lontani oggetti che brillano all'orizzonte mattutino
come le ultime fiamme del tramonto del sole, biancheggiano a volte,
all’orizzonte opposto, le mura di un'umile casetta, o infiammando le
finestre di un fiero e splendido castello.
La vita dell'uomo è divisa in due fasi
distinte: i primi trentacinque anni, sono della speranza; gli altri sono
per la memoria.”
[…]
C. Baudelaire:
DIARI INTIMI
Politica. -
Insomma, davanti alla storia e davanti al popolo francese, la grande
gloria di Napoleone III sarà stata di provare che il primo venuto può,
impossessandosi del telegrafo e della Stampa nazionale, governare una
grande nazione.
Imbecilli sono
quelli che credono che simili cose possono compiersi senza il permesso
del popolo, - e che credono che la gloria non possa poggiarsi che sulla
virtù!
I dittatori sono
i domestici del popolo, - niente di più, un ruolo fottuto d’altronde, e
la gloria è il risultato dell’adattamento di uno spirito alla stupidità
nazionale.
***
PROVERBIO
Chi piglia 1’ anguilla per la coda e la donna per
la parola, può ben dir che non tien niente.
Wer den Aal beim Schwanze nimmt und die Frau beim Wort,
kann wohl sagen, dass er nichts halt.
****
***“Poco partigiano
per natura e poco accessibile alle passioni, serbò nella sua
amministrazione uno spirito d’imparzialità e di giustizia, al quale anco
i suoi più decisi avversari hanno dovuto rendere omaggio. Corse voce che
uno di questi, data egli la sua dimissione, fosse stato a visitarlo
dicendogli: voi avete avuto un merito oggi rarissimo; siete stato
giusto. Non avete mirato a farvi degli amici, né a combattere i nemici;
avete mirato solo ad amministrare giustamente ed imparzialmente”
Dal libro:
FRANCESCO DE SANCTIS DEPUTATO DI SESSA CENNI BIOGRAFICI di NICOLA
GAETANl-TAMBURINI
***
[...] "Anzitutto non devi appioppare la
colpa ai maestri, che
avendo
che fare con
i pazzi, devono per forza
dire cose folli. Infatti,
se non dicessero cose che piacciono
agli scolari, come insegna Cicerone, parlerebbero ai banchi.
Guarda come fanno i ruffiani nelle commedie, che per
scroccare
un pranzo ai ricchi si studiano di dire solo cose
gradite,
dato che non esiste strada migliore dell'orecchio. Per
il
maestro di eloquenza è lo stesso, e se per caso dimentica
di infilzare all'amo un'esca
gradita ai pesci, rimane a disperarsi
sullo scoglio." [...]
Petronio “Satyricon”
grandi tascabili economici NEWTON
***
Da Monumentha Germanica, Biblioteca Nazionale
Austriaca
LETTERA DEL MARESCIALLO AUSTRIACO
RADETZKY A CARLO ALBERTO

DALLA CRESTOMAZIA ITALIANA DI
BARTOLOMEO RINALDI:
Epigrammi:
Amara cortesia.
Lucia presso a morir, dicea al consorte:
"Dirai due requie almen dopo mia morte?"
- "E requie e messe avrai, con tutto il resto;
Vanne in pace Lucia, non star per questo."
Zefirino Re.
Donna ciarlona
"Ah! se muori", dicea mia moglie afflitta,
"Vo' estinta a te da presso esser sepolta."
- "Telo concedo, se potrai star zitta."
Zefirino Re
In morte d'un uomo da nulla.
Dicon ch'è morto Olivo:
E chi s'accorse mai che fosse vivo?
Zefirino Re
Il morso della vipera
La rabbiosa moglier di Giammaria
Da una vipera ier fu morsicata...
Ebbe, credi perciò che morta sia?
No signore: la vipera è creapata
Domenico Cervelli
Dagli "AFORISMI DELL'IMPERATORE
ROMANO MARCO AURELIO:
Il modo migliore per difendersi da un nemico è non comportarsi come lui.
È preciso dovere dell’uomo quello di amare persino chi gli fa torto.
Marco Aurelio “Aforismi”
Da Monumentha Germanica, Biblioteca Nazionale
Austriaca
>> La
Rivoluzione del 1848 nell’Impero Asburgico: un archivio digitale,
documento pubblicato durante la Rivoluzione di venezia nel 1849. |
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Scètete, Maistà, ch" è fatto iuorno,
Nun penzà' ghili à caccia e a li ffigliole
Vide che fa Munzù cu' la Maestà;
Pienze ca iere ciuccio e mo' si' cierro,
Men' 'a mazza si no si' re de cuorno.
Svegliati, Maestà, ch'è
fatto giorno,
Non pensare ad andare a
caccia e con le ragazze
Guarda che fa Monsignore (Acton)
con la Maestà (Carolina)
Pensa che eri asino e ora
sei cervo
Adopera il bastone
altrimenti sei re di corne.
Dal Libro di Molinaro del
Chiaro Luigi, 1850. Canti popolari raccolti in Napoli. Con varianti e
confronti nei varii dialetti.
Con questa
canzonetta i napoletani mettevano in guardia il Re dagli amorazzi della Regina
Carolina con
Sir John
Francis Edward Acton,
VI Baronetto,
noto anche con il nome italianizzato di Giovanni
Acton (Besançon, 3
giugno 1736 – Palermo, 12
agosto 1811),
è stato un politicobritannico,
comandante della flotta
navale del Granducato
di Toscana e segretario
di Stato di Napoli durante
il regno di
Ferdinando
IV,
nonché favorito della
regina Maria
Carolina.
Dalla Sacra Bibbia CEI
Daniele 12:7
Udii l'uomo vestito di lino, che stava sopra le acque del fiume. Egli alzò la
mano destra e la mano sinistra al cielo e giurò per colui che vive in eterno
dicendo: «Questo durerà un tempo, dei tempi e la metà d'un tempo; e quando la
forza del popolo santo sarà interamente spezzata, allora tutte queste cose si
compiranno».
Daniele 12:8
Io udii, ma non compresi e dissi: «Mio signore, quale sarà la fine di queste
cose?»
Daniele 12:9
Egli rispose: «Va' Daniele; perché queste parole sono nascoste e sigillate sino
al tempo della fine.
Daniele 12:10
Molti saranno purificati, imbiancati, affinati; ma gli empi agiranno empiamente
e nessuno degli empi capirà, ma capiranno i saggi.
Daniele 12:11
Dal momento in cui sarà abolito il sacrificio quotidiano e sarà rizzata
l'abominazione della desolazione, passeranno milleduecentonovanta giorni.
Daniele 12:12
Beato chi aspetta e giunge a milletrecentotrentacinque giorni!
Daniele 12:13
Tu avviati verso la fine; tu ti riposerai e poi ti rialzerai per ricevere la tua
parte di eredità alla fine dei tempi».
***
Dal libro di Giorgi
Amendola: UNA SCELTA DI VITA p. 19, Rizzoli, Milano, 1981.
[…]
In una di quelle bancarelle trovai l’opuscolo
originale, edito dal vecchio tipografo Marano, del
Viaggio elettorale
di De Sanctis in Alta Irpinia. Quando nel 1946, nella
campagna elettorale del referendum istituzionale, dovetti parlare in quei comuni
: Lacedonia, Bisaccia, Andretta e Morra, diventata Morra De Sanctis, portavo in
quei miei primi comizi, come un breviario, il
Diario
di De Sanctis. Non so se i continui richiami
al testo di De Sanctis procacciassero molti
voti alla lista del PCI, ma io ero fiero di poter
affermare nei
fatti la continuità della linea di De Sanctis, Labriola, Gramsci, che è la linea
del progresso culturale e civile del popolo
italiano. Comunque fu grazie all’apporto dei voti
raccolti in
Alta Irpinia che il partito conquistò un quoziente nella circoscrizione
Salemo-Avellino. […]
***
BRANO DAI DIARI DI LEONE TOLSTOI
(Per chi non lo conosce. Leone Tolstoi è il
grande scrittore russo che ha scritto "ANNA KARENINA e GUERRA E PACE" quei due
libri di cui sono stati girati anche dei film. Il libro l'ho preso dalla
Biblioteca online di Toronto, Canadà)
**************************************************************************************************
[...]12 giugno Mi sono alzato tardi, svegliato da Nikolenka che tornava dalla
caccia. Ieri non ho dormito quasi tutta la notte, ho scritto il diario, poi mi
sono messo a pregare Dio. La dolcezza del sentimento che ho provato nella
preghiera è impossibile a esprimere. Ho detto le preghiere che recito di solito:
al Signore, alla Madonna, alla Trinità, alle Porte della Carità, l'appello
all'angelo custode, e poi sono rimasto ancora in preghiera. Se si definisce la
preghiera una richiesta o un ringraziamento, allora non ho pregato. Ho
desiderato qualcosa di elevato e di buono; ma che cosa, non posso dirlo; anche
se ero consapevole di quel che desideravo. Avevo voglia di fondermi con l'Essere
che tutto abbraccia.
Come mi è stato terribile guardare in quel momento la parte meschina e viziosa
della mia vita. Non riuscivo a arrivare a capire come essa possa attrarmi. Come
pregavo Dio con cuore puro di accettarmi nel suo grembo! Io non sentivo la
carne, ero solo spirito. Ma no! La parte carnale, bassa, ha preso di nuovo il
sopravvento, e non è passata un'ora che io, in piena coscienza, ascoltavo la
voce del vizio, della vanità, della parte vuota della vita; sapevo da dove
veniva questa voce, sapevo che essa avrebbe rovinato la mia beatitudine: e ho
lottato con essa; ma mi ha vinto. Mi sono addormentato sognando gloria e donne;
ma non sono colpevole, non ce la faccio.
Ho trascorso la mattinata abbastanza bene. Sono stato un po' pigro, ho mentito,
ma senza colpa. Domani scriverò una lettera alla Zagoskina, almeno in brutta
copia.
Ho disegnato senza impegno. Nel pomeriggio ho guardato le nuvole. Erano
bellissime al tramonto del sole. L'occidente rosseggiava, ma il sole era ancora
a un paio di metri dall'orizzonte. Sopra di esso si arricciolavano spesse nuvole
grigio purpureo che si fondevano fra loro goffamente. Stavo parlando con
qualcuno e mi sono voltato; all'orizzonte si allungava una striscia scura grigio
rosso che terminava in forme continuamente mutevoli: ora si chinavano una verso
l'altra, ora si spezzavano con code rosso chiaro.
L'uomo è stato creato per la solitudine: solitudine non nel senso reale, ma in
senso morale.
Mi hanno colpito tre cose: primo, i discorsi degli ufficiali sul coraggio.
Appena parlano di qualcuno: è coraggioso o no? Sì, come no. Tutti sono
coraggiosi. Questo concetto del coraggio si può esporre così: il coraggio è uno
stato d'animo nel quale le forze dell'animo agiscono allo stesso modo in
qualsiasi circostanza. Oppure: la tensione dell'azione priva della coscienza del
pericolo. E ancora: ci sono due tipi di coraggio: morale e fisico. Il coraggio
morale è quello derivante dal senso del dovere e in generale dalle aspirazioni
morali, e non dalla coscienza del pericolo. Il coraggio fisico è quello che
deriva dalla necessità fisica senza privare della coscienza del pericolo, oppure
quello che priva di questa coscienza. Esempio del primo: l'uomo che si sacrifica
volontariamente per la salvezza della patria o di una persona. Esempio del
secondo, l'ufficiale che presta servizio per guadagno. Esempio del terzo, nella
campagna turca i soldati russi si sono buttati nelle braccia del nemico soltanto
per aver da bere. Qui è valso solo l'esempio da parte nostra di coraggio fisico,
e questo ha fatto tutto.....
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