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L’angoscia nell’uomo

Che cos’è l’angoscia?, una sensazione, una  malattia,  oppure uno stato d’animo privilegiato. La cultura occidentale, nella sua storia, ha elaborato diverse concezioni dell’angoscia. Quella sottile, inafferrabile, indefinita sensazione; il terrore di qualcosa di indeterminato che ci accompagna per tutta la nostra esistenza, e ci fa vedere il fondo di un baratro.  Se la paura ha per oggetto qualcosa di determinato, che può venir meno con il venir meno di questa cosa, l’angoscia è la paura del nulla, del niente che la caratterizza, ma è proprio questo niente che la genera, con l’impressione di non vivere più nella temporalità, con il sentirsi sospesi sull’abisso del nulla: sta qui tutta la drammaticità e problematicità dell’essere uomo. Un terribile smarrimento, la perdita di ogni certezza, l’assenza del presente, ma ancor più del futuro; una visione apocalittica del reale, la discesa delle tenebre nello spirito e nella mente, la notte oscura dell’anima. L’angoscia è stata sempre presente nella storia dell’uomo, tanto più profonda e grave in un epoca di decadenza come la nostra. Forse il pensatore che più di ogni altro ha saputo cogliere la sua vera essenza, è Kierkegaard, che fece dell’angoscia esistenziale il  fondamento della sua dottrina filosofica,  Heidegger ne continuò il pensiero, Sartre ne fece il punto di congiunzione con la solitudine. Per Kierkegaard l’esistenza umana, come essere dell’uomo nel mondo, è racchiusa nei concetti di singolarità, possibilità, scelta, angoscia, disperazione e fede, ed è quest’ultima, secondo il filosofo danese, che consente all’uomo il superamento dell’angoscia. Essa è concepita come sentimento del possibile, ma di una  possibilità che si specchia nell’impossibilità per l’uomo di conseguire la pienezza della sua vita; il sentimento della possibilità rispetto al suo agire nel mondo, non rispetto a se stesso, come invece nella disperazione. Dunque, l’angoscia, come possibilità immanente del nulla, è legata all’esistenza come possibilità, non solo come possibilità di essere, ma anche come possibilità di non essere, come possibilità di annientamento dell’uomo. Essa ci assale quando siamo di fronte a noi stessi, non a qualcosa che è fuori di noi. Solo l’uomo con un grande spirito, può avere questa sensazione. Più grande è l’uomo, diceva Kierkegaard, più  profonda è l’angoscia; “ nessun grande inquisitore tiene pronte torture così terribili come l’angoscia; nessuna spia sa attaccare con tanta astuzia la persona sospetta, proprio nel momento in cui è più debole, né sa preparare così bene i lacci per accalappiarla come sa l’angoscia”. Heidegger riprende le tesi del filosofo danese; anche per lui l’angoscia esistenziale è il tema centrale del suo pensiero; quest’esperienza emotiva, si origina quando l’uomo si trova di fronte al nulla, dinanzi alla nullificazione della sua esistenza, alla sua morte, intesa come possibilità decisiva dell’esistenza; ogni altra emozione, ogni diverso sentire, sono poca cosa in raffronto ad essa, ma, paradossalmente, è solo in essa che l’uomo ha la piena consapevolezza del suo essere autentico. L’angoscia, per Sartre, nasce nell’animo umano dalla libertà dell’uomo, da quella libertà che è l’uomo, da cui è impossibile liberarsi, e si accompagna ad una percezione di vuoto, di assenza, di mancanza, in relazione alla propria esistenza.  “ io sono condannato ad essere libero, dice Sartre”. Essa è il punto di arrivo di una coscienza compiuta, matura, consapevole.  Per il pensatore francese, l’angoscia, si presenta quando l’uomo si trova dinanzi ad una scelta da compiere, e questa scelta deve avvenire, senza una guida, di fronte alle sue responsabilità, nella più deserta solitudine. Egli, riprendendo una certa tradizione esistenzialista, scriveva ne “L’essere e il Nulla” che “ non possiamo sopprimerla, perché siamo angoscia”.  Ma l’angoscia non è solo negatività, poiché in essa l’uomo ritrova se stesso, tutta la pienezza del suo essere, ed anzi, per Lacan, è perfino possibile cogliere in essa una “positività”, perché “è la via privilegiata per accedere al reale”. Il suo superamento può avvenire con la totale accettazione del nulla da cui proveniamo e dal nulla in cui andremo, guardando l’esistenza per quello che è, nella sua finitezza costitutiva, nella sua storicità e temporalità. Essa, per quell’esistente finito, con l’idea d’infinito, che è l’uomo, è via alla trascendenza, è condizione essenziale per una vita autentica, è ricerca della verità delle cose, è conquista di libertà.

Gianvito Gialanella